venerdì 4 febbraio 2011

L’aristocrazia? “Non esiste” secondo Giulio Giustiniani


Il famoso giornalista, già direttore di varie testate nazionali, si racconta per Maria Pacini Fazzi Editore nel suo libro sulla lunga e avvincente storia della nobile casata da cui proviene

L’aristocrazia? “Non esiste”. Questo emerge dalle avvincenti pagine de Il sangue è acqua. Il doge, il santo, l’avventuriero, il principe dei mongoli e altri parenti”, il libro con cui Giulio Giustiniani, attraversando secoli e continenti, racconta della sua famiglia, stirpe di nobili dalle origini antichissime, edito da Maria Pacini Fazzi di Lucca.

Famoso giornalista già direttore di varie testate nazionali, ora in buen retiro a Percoto (Udine), dove abita con la moglie Elisabetta Nonino, in questo libro Giustiniani fa rivivere il grande passato dei suoi antenati, personaggi celebri e non, che l’autore, senza alcun intento celebrativo, riporta a sé e al proprio presente nel segno della ferrea consapevolezza, inculcatagli dal nonno materno, che «il sangue è acqua e niente definisce l’aristocrazia in quanto tale, e quindi l’aristocrazia non esiste. Non è un ceto, né una classe. Nobile è soltanto chi aggiunge a un buon cognome, che se c’è non guasta, alcuni meriti veri e personali: cultura, sensibilità, educazione, operosità. Il resto è stoltezza e superbia». Non è un caso, infatti, che alle sue figlie dica sempre “che è molto più importante il cognome Nonino, che è un brand, di quello di Giustiniani, che è un ricordo”.

Il volume, che appare quasi come un racconto intimo a uso dei propri figli, rappresenta dunque un contributo originale ai rari studi sul mondo aristocratico, in cui il lettore è condotto attraverso i secoli e i costumi di “chi nasce”, come si diceva una volta dei nobili, con passo curioso e disinvolto, talvolta spregiudicato, ricostruendo una storia minuta, quella con la s minuscola, che spesso gli storici trascurano.

Senza attenersi a una narrazione strettamente cronologica, ma concedendosi digressioni che ne impreziosiscono invece l’andamento a tratti anche romanzesco, il libro descrive come era davvero quel mondo aristocratico e da che cosa era segnato: «la fede in Dio, il senso della misura, l’amore per la bellezza, l’arte di far durare la famiglia insegnandole a non dissipare niente, né beni né ricordi. Come rispettare i più semplici, cioè quasi tutti gli altri. Come vivere dando un significato al vivere».

Il racconto prende le mosse dai personaggi del ramo materno, i toscani Sardi e Mazzei, per poi affrontare quelli della parte paterna, i veneti Giustiniani e i fiorentini Pandolfini, e concludersi sui tempi a noi più prossimi con brevi squarci legati alla stretta cerchia dei genitori e fratelli.

Così, in questo racconto autobiografico, attraverso gli occhi sbigottiti di un bambino che invano cerca nel passato un segno del suo destino, s’incontra di tutto: un settecentesco banchiere lucchese fallito ad Amsterdam e ridottosi a fare il coltivatore nella Guyana olandese tra schiavi di colore dai sensi troppo accesi; un patriota italiano che si ritrova a combattere come spia per l’indipendenza americana contro gli inglesi; la figlia di un famoso scrittore che giace nel suo letto di moribonda, martoriata dalla tisi, e invoca il grande padre lontano e assente; due monache di clausura che chiedono a Dio “agonia per sé e gioia per i parenti”; un avventuriero spendaccione che scandalizza la corte polacca. E poi ancora: un monaco che deve lasciare il convento, fino ad arrivare a una signora che s’innamora di un grande poeta romantico, passionale e infedele come lei, e ad un’altra ancora che, travolta dai sentimenti, abbandona il marito fiorentino per scappare a San Pietroburgo con un ufficiale dello Zar che discende addirittura da un principe mongolo dell’Orda d’oro di Gengis Khan.

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